Il conciato romano
Il Conciato Romano non è tra i formaggi più antichi del mondo; il Conciato Romano è il formaggio più antico del mondo.

Il conciato romano: l’equivoco dietro il formaggio più antico d’Italia
Il Conciato Romano non è tra i formaggi più antichi del mondo; il Conciato Romano è il formaggio più antico del mondo. Citato perfino da Plinio, formaggio della tradizione campana , “esumato” da alcune aziende della zona del Volturno e diventato Presidio Slow Food nel 2000.
A dispetto del nome il conciato romano è di indubbia provenienza sannita; tradizionalmente prodotto nel casertano ha origine nel comune di Castel di Sasso e nei paesi del Monte Maggiore.
questo formaggio viene ealizzato con latte ovino, di pecora o di mucca ha di particolare la laboriosa lavorazione che prevede nella fase iniziale, la rottura a mano della cagliata
che viene ridotta in pezzi minutissimi simili a chicchi di riso .
Il composto viene messo all’interno di fuscelle di vimini o plastica
dopodiché si attende che il cacio abbia preso forma e si procede alla salatura manuale.
Si attendono 12 ore prima che le forme vengano riposte sul “casale” (tipica struttura di legno aperta), dove si lasciano asciugare prima di essere sottoposte alla concia.
Questa consiste nel lavaggio del formaggio con l’acqua di cottura delle “pettole”
una pasta fatta a mano tipica della zona, che lascia sulla crosta un lieve strato di amido.
Successivamente e caciotte vengono trattate con una miscela di olio d’oliva, aceto di vino Casavecchia, piperna e peperoncino e messe a stagionare in anfore di creta, dove riposeranno da 6 mesi fino a due anni.
Il risultato di questa lunga lavorazione è un formaggio a pasta dura di colore giallo intenso e dal sapore deciso, talora piccante, ma al contempo equilibrato e fragrante.
A tavola si abbina con vini passiti dell’alto casertano, marmellate e miele, pasta fatta in casa (gnocchi con i “friarielli”)
con mele annurca infornate con zucchero e Asprinio DOC vino diffuso principalmente nella provincia di Aversa.
un vino dal colore verdolino e dai profumi agrumati, tra i quali spicca la nota di limone, ed ha toni vegetali. Ha struttura, e peculare acidità che lo rende “aspro”. Da qui il nome “asprinio”.
Le origini sono incerte. Alcune analisi molecolari, svolte sul vitigno, dimostrano che è uno dei più antichi della Campania, geneticamente simile all’uva greco. Altre fonti ipotizzano la parentela con il pinot bianco, introdotto nel Cinquecento – durante la dominazione francese – dalla Corte Angioina, per ottenere un vino spumantizzato, che riproducesse le caratteristiche dello champagne.
La scelta del territorio, per coltivare l’asprinio (la rigogliosa terra di Aversa, un tempo chiamata Liburia) non è un caso.
È sostanzialmente dovuta alla conformazione del terreno, di origine vulcanica riconducibile all’area flegrea, composta da tufo giallo e grigio, da lapilli, pozzolane e cenere, ricco di trachite e potassio. Questi elementi consentono di ottenere un vino che si presta ad essere spumantizzato.
I comuni vocati per la coltivazione – rientranti nel disciplinare di produzione della Doc – sono 22, dei quali 19 nel casertano e 3 in provincia di Napoli.